titolo del libro : "L'ALBERO DEI TORTI"

genere: Narrativa

autore: Nino Casamento         

editore: Magi edizioni (2003)

prezzo: euro 10

 

Ho esaminato con attenzione questo bel libro di narrativa che mi ha suscitato delle sensazioni sicuramente intense, nel corso di una lettura piacevole e, comunque, abbastanza rapida, grazie alla notevole scorrevolezza del testo, lineare, scevro da grovigli stilistici, all’insegna, oltretutto, di una stimolante curiosità, crescente irresistibilmente rigo dopo rigo. Il romanzo è incentrato sull’interessante figura di Gino e costituisce, in qualche modo, una summa della sua vita difficile e delle vicende, buone e cattive, che l’hanno segnata forse in maniera indelebile. Il protagonista si muove su sfondi differenti e, ovviamente, in modo diverso secondo le varie situazioni; a volte con piglio sicuro e quasi spavaldo, altre -invece- quasi a fatica, sbandando confuso, oscillando tristemente “tra il dolore e la noia” per dirla come Schopenhauer, sempre -però- all’insegna di una straordinaria sensibilità, dote non di molti, che -purtroppo- accentua la misteriosa oscurità che tende a velare le percezioni gioiose (e, tutto sommato, superficiali) che sono appannaggio della gran parte della gente, aggravando quel mal di vivere che quasi mai è realmente curabile. L’Autore ci offre un convincente ritratto psicologico di quest’uomo, nel quale non è difficoltoso identificarsi, operando un considerevole scavo introspettivo, sondando le cavità della sua anima coi suoi più vari livelli emozionali, esaminandone accuratamente gli aspetti maggiormente celati. Emergono preziosi flussi di memorie che dilagano sulle pagine come maree in continuo moto, che inondano, nutrendola, l’arida sabbia dell’esistenza e, nel loro ritrarsi, lasciano sulla riva ogni volta qualcosa d’importante, anche se non sempre piacevole, da raccogliere. Gino, dopo il trauma della perdita (in questo caso del padre), esperienza con la quale, volenti o nolenti, tutti prima o poi dobbiamo confrontarci, che segna il passaggio dalla spensieratezza giovanile, dall’esaltante goliardia, alla maturità vera e propria, inizia un faticoso percorso verso la realizzazione delle sue idee, cercando, con orgogliosa volontà, di concretare le progettualità elaborate dopo meditazioni e ripensamenti continui, garanzia d’apertura mentale e di coraggio non comuni. Numerose sono le cadute, talvolta rovinose, eppure nonostante le vaste ferite Egli trova ogni volta la forza interiore di rialzarsi e proseguire, animato da uno spirito poco incline alla resa. Particolare importanza rivestono i luoghi che ospitano la vicenda, descritti con dovizia di particolari e che, in certe magnifiche immagini, sconfinano soffusamente nella poesia. Luoghi, beninteso, che al di là della pura rappresentazione di quasi ovvie realtà naturali (il “sud” con la profumata fantasmagoria dei suoi ineguagliabili colori, il “nord” col suo uniforme e quasi asfittico grigiore) costituiscono il riverbero emozionale del complesso subconscio del protagonista, oltreché simbolo di evidenti differenze storico-sociali. Che dire poi della variegata coorte di personaggi che accompagnano Gino nelle varie tappe di questo viaggio lungo i tortuosi sentieri della vita? Certamente sono un campionario abbastanza completo del genere umano, e ad ognuno di loro si può istantaneamente accoppiare una caratteristica morale: invidia, gelosia, generosità, falsità, onestà, affetto, genuinità, amicizia, passione, amore… e molte altre ancora, dipinte con immediatezza tramite una descrizione folgorante e sintetica incentrata soprattutto sugli occhi, qui più che mai specchio dell’anima. Seguendo un itinerario che l’Autore traccia in maniera assai chiara, il personaggio principale dalla Sicilia (con le sue contraddizioni) raggiunge la Lombardia (con le sue lusinghe) per tornare infine nella sua mai dimenticata Isola, realizzato professionalmente nonostante le tristi vicende accadutegli e proprio per queste psicologicamente sconfitto; avviene così la chiusura del cerchio con un ideale ritorno alle origini, al primitivo Eden, alla ricerca di una sorta di purificazione che lo liberi dalle scorie che, impietosamente, gli si sono attaccate addosso, giorno dopo giorno, per trovare motivazioni indispensabili ad una problematica rinascita spirituale. “Panta rei”, purtroppo, e nulla è mai come lo era una volta, perché il tempo ogni cosa cambia impietosamente, così Gino si rende conto che la sua terra -con quei valori tradizionali in cui credeva- non è più come una volta e che, in una tragica sequela inarrestabile, ha perso amici, sentimenti, ambizioni, serenità, fiducia nelle migliori qualità degli uomini, sentendosi abbandonato persino dal destino, agonizzante in un leopardiano pessimismo cosmico, in precario equilibrio sull’immenso baratro della depressione, con una sola realtà per sgradita compagna, la sua devastante solitudine. Il tenero arbusto interrato dal padre prima di morire, come in omaggio alle importanti origini contadine, presenza discreta, quasi accennata ma certamente fondamentale, simbolo di un’eredità d’affetti che non deve disperdersi, è oramai cresciuto fino a diventare grande e rigoglioso, e Gino -adesso- finisce per identificarlo con una pianta cattiva che si è sviluppata a dismisura, nutrendosi delle ingiustizie e delle iniquità che ha subito senza soluzione di continuo, una mostruosa entità pronta a porre fine ai suoi stanchi giorni, soffocando con la malefica vegetazione ogni residuo afflato vitale. Eppure, quando ogni possibilità di sopravvivenza appare ormai crollata sotto la perfidia degli umani e le spallate crudeli della sorte, l’ultima, indicibile sofferenza la perdita (ancora!) di quello che, probabilmente, era -tra tante deludenti avventure- il vero, unico, salvifico amore, sembra attuare quell’auspicata catarsi a lungo attesa e ricreare quello stato di primitiva felicità, quell’innocenza perduta dalla quale provare a ripartire ancora una volta, aggrappandosi anche ai tenui filamenti di una Fede forse mai completamente dispersa, perché “spes ultima dea est” e, in fondo, pure l’albero più selvatico, anche quello dei torti può, almeno una volta, fiorire nel corso della sua vita. 

Giuseppe Risica