Ho
esaminato con attenzione questo bel libro di narrativa che mi ha suscitato
delle sensazioni sicuramente intense, nel corso di una lettura piacevole
e, comunque, abbastanza rapida, grazie alla notevole scorrevolezza del
testo, lineare, scevro da grovigli stilistici, all’insegna, oltretutto,
di una stimolante curiosità, crescente irresistibilmente rigo dopo rigo.
Il romanzo è incentrato
sull’interessante figura di Gino e costituisce, in qualche modo, una
summa della sua vita difficile e delle vicende, buone e cattive, che
l’hanno segnata forse in maniera indelebile.
Il protagonista si muove
su sfondi differenti e, ovviamente, in modo diverso secondo le varie
situazioni; a volte con piglio sicuro e quasi spavaldo, altre -invece-
quasi a fatica, sbandando confuso, oscillando tristemente “tra il dolore
e la noia” per dirla come Schopenhauer, sempre -però- all’insegna di
una straordinaria sensibilità, dote non di molti, che -purtroppo-
accentua la misteriosa oscurità che tende a velare le percezioni gioiose
(e, tutto sommato, superficiali) che sono appannaggio della gran parte
della gente, aggravando quel mal di vivere che quasi mai è realmente
curabile.
L’Autore ci offre un
convincente ritratto psicologico di quest’uomo, nel quale non è
difficoltoso identificarsi, operando un considerevole scavo introspettivo,
sondando le cavità della sua anima coi suoi più vari livelli emozionali,
esaminandone accuratamente gli aspetti maggiormente celati.
Emergono preziosi flussi di memorie che dilagano sulle pagine come maree
in continuo moto, che inondano, nutrendola, l’arida sabbia
dell’esistenza e, nel loro ritrarsi, lasciano sulla riva ogni volta
qualcosa d’importante, anche se non sempre piacevole, da raccogliere.
Gino, dopo il trauma della perdita (in questo caso del padre), esperienza
con la quale, volenti o nolenti, tutti prima o poi dobbiamo confrontarci,
che segna il passaggio dalla spensieratezza giovanile, dall’esaltante
goliardia, alla maturità vera e propria, inizia un faticoso percorso
verso la realizzazione delle sue idee, cercando, con orgogliosa volontà,
di concretare le progettualità elaborate dopo meditazioni e ripensamenti
continui, garanzia d’apertura mentale e di coraggio non comuni.
Numerose sono le cadute, talvolta rovinose, eppure nonostante le vaste
ferite Egli trova ogni volta la forza interiore di rialzarsi e proseguire,
animato da uno spirito poco incline alla resa.
Particolare importanza rivestono i luoghi che ospitano la vicenda,
descritti con dovizia di particolari e che, in certe magnifiche immagini,
sconfinano soffusamente nella poesia. Luoghi, beninteso, che al di là
della pura rappresentazione di quasi ovvie realtà naturali (il “sud”
con la profumata fantasmagoria dei suoi ineguagliabili colori, il
“nord” col suo uniforme e quasi asfittico grigiore) costituiscono il
riverbero emozionale del complesso subconscio del protagonista, oltreché
simbolo di evidenti differenze storico-sociali.
Che dire poi della variegata coorte di personaggi che accompagnano Gino
nelle varie tappe di questo viaggio lungo i tortuosi sentieri della vita?
Certamente sono un campionario abbastanza completo del genere umano, e ad
ognuno di loro si può istantaneamente accoppiare una caratteristica
morale: invidia, gelosia, generosità, falsità, onestà, affetto,
genuinità, amicizia, passione, amore… e molte altre ancora, dipinte con
immediatezza tramite una descrizione folgorante e sintetica incentrata
soprattutto sugli occhi, qui più che mai specchio dell’anima.
Seguendo un itinerario che l’Autore traccia in maniera assai
chiara, il personaggio principale dalla Sicilia (con le sue
contraddizioni) raggiunge la Lombardia (con le sue lusinghe) per tornare
infine nella sua mai dimenticata Isola, realizzato professionalmente
nonostante le tristi vicende accadutegli e proprio per queste
psicologicamente sconfitto; avviene così la chiusura del cerchio con un
ideale ritorno alle origini, al primitivo Eden, alla ricerca di una sorta
di purificazione che lo liberi dalle scorie che, impietosamente, gli si
sono attaccate addosso, giorno dopo giorno, per trovare motivazioni
indispensabili ad una problematica rinascita spirituale. “Panta
rei”, purtroppo, e nulla è mai come lo era una volta, perché il tempo
ogni cosa cambia impietosamente, così Gino si rende conto che la sua
terra -con quei valori tradizionali in cui credeva- non è più come una
volta e che, in una tragica sequela inarrestabile, ha perso amici,
sentimenti, ambizioni, serenità, fiducia nelle migliori qualità degli
uomini, sentendosi abbandonato persino dal destino, agonizzante in un
leopardiano pessimismo cosmico, in precario equilibrio sull’immenso
baratro della depressione, con una sola realtà per sgradita compagna, la
sua devastante solitudine.
Il tenero arbusto interrato dal padre prima di morire, come in omaggio
alle importanti origini contadine, presenza discreta, quasi accennata ma
certamente fondamentale, simbolo di un’eredità d’affetti che non deve
disperdersi, è oramai cresciuto fino a diventare grande e rigoglioso, e
Gino -adesso- finisce per identificarlo con una pianta cattiva che si è
sviluppata a dismisura, nutrendosi delle ingiustizie e delle iniquità che
ha subito senza soluzione di continuo, una mostruosa entità pronta a
porre fine ai suoi stanchi giorni, soffocando con la malefica vegetazione
ogni residuo afflato vitale.
Eppure, quando ogni
possibilità di sopravvivenza appare ormai crollata sotto la perfidia
degli umani e le spallate crudeli della sorte, l’ultima, indicibile
sofferenza la perdita (ancora!) di quello che, probabilmente, era -tra
tante deludenti avventure- il vero, unico, salvifico amore, sembra attuare
quell’auspicata catarsi a lungo attesa e ricreare quello stato di
primitiva felicità, quell’innocenza perduta dalla quale provare a
ripartire ancora una volta, aggrappandosi anche ai tenui filamenti di una
Fede forse mai completamente dispersa, perché “spes ultima dea est”
e, in fondo, pure l’albero più selvatico, anche quello dei torti può,
almeno una volta, fiorire nel corso della sua vita.
Giuseppe
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