“MARTA
D’ELICONA” DI MELO FRENI
UN
VIAGGIO NELLE TRADIZIONI E NELL’ANIMA DELLA SICILIA
Melo Freni è un uomo di cultura, notissimo -oltre che
per l'indiscutibile qualità delle sue opere- anche per la notevole
varietà di generi e modelli ai quali ha affidato, nel corso del suo
articolato iter artistico, l’impegnativo compito di rendere ben
evidente la “vis creativa” che gli si agita costantemente e
tumultuosamente dentro. Si tratta di una sorta di caos, inteso -sia
chiaro- come fonte d’energia, che si materializza
cristallizzandosi in soggetti dalle molteplici sfaccettature,
ognuna diversa dalle altre eppure tutte riverberanti la medesima
origine. Non stupisce -pertanto- il fatto che egli si sia cimentato, con
uguale successo, nella
poesia, nella narrativa, nel teatro, nella saggistica, nel giornalismo,
nella documentazione, nell’informazione, -in definitiva- in tutto ciò
che sia divulgazione di un’articolata progettualità
culturale-esistenziale decisamente elevata e di tale spessore da essere
in grado di tracciare un percorso netto verso il meritato raggiungimento
di traguardi d’assoluto prestigio. Questo è in estrema sintesi Freni
“dal multiforme ingegno”, ciononostante è sempre presente un
immutato senso di meraviglia, nella mia frequentazione dei
componimenti letterari, quando mi accosto ad ogni sua nuova fatica. La
meraviglia -beninteso- della rinnovata scoperta di una freschezza
adeguata al mutare del tempo, di un fiorire d’emozioni emergenti
rigogliose da un tronco segnato dalle tempeste della vita eppure
estremamente saldo, carezzato dal benefico respiro di Eolo, nutrito dai
raggi dorati di un sole che non ha eguali. Ed anche per “Marta d’Elicona”
(Sellerio Editore) è stato fortemente lo stesso. E’ certo che di rado
si possono trovare condensate in un lavoro di narrativa così tante
sensazioni e chiavi di lettura. Nel curatissimo volumetto è racchiuso
uno scritto fitto di suggestioni che affonda profonde radici nei mistici
territori dei miti, candido come una fiaba, appassionante come un
romanzo, pregno di saggezza e di antichi valori, lacerato dai tormenti
angosciosi dell’animo umano, velato da atmosfere surreali di magia e
di mistero, intriso dalla pioggia della Fede. La vicenda di Marta attrae
con tenui malie fin dalle prime pagine, rigo dopo rigo,
irresistibilmente. Questa pastorella, esile figura dall’incredibile
vigore nascosto, felice di vivere nel proprio mondo incontaminato, tra
il “cubburu” e i luoghi che orbitano intorno all’oscuro bosco di
“Malabotta”, circondata dalle creature amate ma assillata da
improvvise ed inspiegabili incertezze interiori, conquista subito il
lettore. E’ incolta la pastorella d’Elicona ma raggiungerà comunque
una forma di conoscenza, in parte per una predestinazione, una sorta di
metempsicosi materna probabilmente indesiderata (perché “può
capitare spesso che i morti governino i vivi”), in larga parte perché
dai dubbi che dolorosamente si aprono strada nel suo animo puro, nasce
il giusto diritto a sapere, a scoprire il senso nascosto delle cose, a
ravvicinarsi al vero significato del nostro percorso per i sentieri del
mondo. Sentieri che non sono poi dissimili da quelli calpestati dal suo
piede leggero e in apparenza spensierato verso le possenti rocche
dell’Argimoscu, con il loro arcano richiamo ad una contemplazione
dalla veemente carica simbolica. Marta si muove in un contesto di
innegabile fascino, un eden primordiale dal quale irradiano sui
personaggi e sulle stesse cose barlumi sfolgoranti di divinità. Le
piante, le rocce, l’aria, la neve, la pioggia, lungi dal mostrarsi
come semplici spettatori, rivelano una magica essenza che li rende
compiutamente partecipi ad ogni evento narrato. Gli animali, nel loro
comportamento istintivo, interagiscono con gli esseri umani in muti,
significativi colloqui fatti di versi e di sguardi. Le genti della
montagna, umili e fiere, pettegole ed orgogliose, sono in continua
contraddizione ma riccamente dotate di una saggezza nutrita da preziose
ritualità e di quella fondamentale “pietas” che nobilita ogni loro
gesto, anche quello in apparenza più insignificante. Sullo sfondo
immutabile di terre meravigliose e selvagge, dipinte dall’Autore con
mirabili tocchi di autentica poesia,
aleggia irrefrenabile il senso della tragedia, la vicissitudine di un
sentimento infelice, l’impossibilità data a Marta di amare -chè non
è realizzabile la lotta con il Fato e con chi lo governa, anche se
cerchi di essere suo servitore- . I “giorni magri della morte” si
portano via ogni amore, e non giova guarire gli altri -per virtù divina o per diabolico
potere- se dentro ogni giorno si muore un poco. La madre Giuanna, se ne
va lasciando alla figlia, “nel tempo delle costellazioni piene”, il
generoso potere taumaturgico delle sue mani “secche e nodose come rami
d’autunno, calde e profumate di fatica stagionata”. Il padre
Gregoriu, uomo semplice e pratico ma che sovente si sorprende a meditare
-nell’ottica di una spontanea filosofia tipica dei popoli
mediterranei-, segnato dagli eventi, si trasforma progressivamente in un
contemplatore silenzioso che guarda passare il nostalgico fiume dei
ricordi e le si aggrappa per trovare qualche motivo per sopravvivere. Il
fratello Gaetano, ossessionato dall’innaturale passione vero di lei,
è una figura disegnata in modo pressoché perfetto, che esprime
compiutamente la sofferenza e l’estenuante lotta che lo squassa dentro
per provare a contrapporsi, tra tentazioni e rimorsi, ad un sentimento
blasfemo, ad un inferno quotidiano da cui si libererà soltanto quando
-tra i cori innalzati alla
Madonna dell’Assunta per esorcizzare gli indemoniati- troverà in un
abbraccio disperato l’ultima quiete. E di Marta che ne sarà? Di Marta
semplice e complicata, allegra e malinconica, libera e incatenata, santa
e strega? Di Marta desiderata e respinta, odiata e benedetta, amata e
temuta, carezzata e maltrattata? Quando lo spettro devastante della
solitudine le si para innanzi spietato e i germi della follia stanno per
innestarsi voraci in ogni sua cellula fino ad invaderne l’anima -perché
“l’asprezza del vento aveva prosciugato le ultime fantasie”- , un
estremo sortilegio o piuttosto la volontà suprema della bontà divina,
donano alla sua eterea essenza la pace nella concretezza incorruttibile
della roccia, raccolta in una mistica postura di preghiera, collocata
all’esatto confine tra la terra che aveva sempre sentito sua e il
cielo cui aveva intimamente aspirato.
“Marta d’Elicona” è la piccola grande saga di un’umile
fanciulla, di una famiglia come tante, di una comunità con il suo
colorato corredo di varia umanità, ma nello stesso tempo è anche
l’esposizione attenta di un’intera epoca, innestata in una Sicilia
legata ad un modo di essere e di pensare forse oggi quasi completamente
scomparso, oscillante tra i valori fondamentali della tradizione e
l’avanzare di un progresso desiderato e temibile nello stesso tempo, e
per questo è vieppiù pregevole. La prosa di Freni si dimostra -ancora
una volta- agile ed accattivante, sempre sapientemente adeguata. In
certi tratti è tangibile un’armoniosa musicalità di fondo che emana
dalle pieghe garbate di un apprezzabile lirismo. L’uso -mai eccessivo-
di termini dialettali adorna uno stile certamente originale e facilmente
riconoscibile. In conclusione, un libro di qualità: emozionante,
stimolante, commovente. Da leggere e da rileggere con sottile piacere e
convinta partecipazione, anche in quanto narra una storia che potrebbe
essere vera, perché -come dice l’Autore- “tra favola e realtà
talvolta non c’è differenza”.
Giuseppe
Risica
Nella foto: Giuseppe Risica insieme a Melo
Freni
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