GIUSEPPE
RISICA
“
UNA STORIA DI MARE “
( racconto )
Era
una mattina d'ottobre del 1943. La guerra da poco aveva cessato di martoriare la
Sicilia e c’era nell'aria una voglia irresistibile di ricominciare, di tornare
nuovamente a sorridere.
Tonnarella,
poche casette di schiuma incagliate su una spiaggia gialla come uno spicchio di
deserto, tra le rocce ventose di Tindari e la lama sottile di Milazzo, si era
svegliata sotto lo sguardo distratto di un cielo macchiato di sole, dopo i
lunghi giorni di una tempesta che
aveva lasciato sul litorale larghe piaghe impastate d’alghe e frammenti di
relitti, impedendo ai pescatori di andare per mare, cioè di vivere.
Gaetano
si alzò prestissimo, come sempre.
Sin
da piccolo, da quando suo padre lo svegliava piano ai primi segni dell’alba,
per portarlo con sé a pescare, aveva preso quest'abitudine che con gli anni,
ora ne aveva quasi sessanta, si era sempre più accentuata. Con i sacrifici, che
la gente di mare conosce a fondo, era riuscito, dopo anni passati da marinaio in
altre imbarcazioni, a diventare "padrone" di una barca tutta sua, con
un equipaggio di giovani, costituito in parte da figli e parenti.
Scese
in spiaggia, lasciando orme decise sulla sabbia da poco baciata dalla rugiada
del mattino, profumata di zagara e salsedine. Accese una sigaretta che si era
preparata con le dita ingiallite,
avvolgendo accuratamente -quasi compisse un rituale- in una sottile cartina del
pessimo trinciato reperito, non senza difficoltà, al mercato nero. Una sottile
malinconia si poggiava sulle linee aspre del suo viso, dando certe volte
l’impressione che egli fosse distante, quasi inseguisse i suoi pensieri,
fuggiti in chissà quale mondo lontano.
Osservò
il mare: non c'era una bava di vento, l'acqua sembrava immobile e di un colore
indefinito, una specie di verde cupo, intersecato da sfumate striature marrone
che si confondevano in tortuosi torrenti, come accade subito dopo i giorni di
maltempo.
Tossì,
si avvicinò alla sua barca, la toccò quasi accarezzandola, controllò con cura
i remi, il cordame, le reti ed attese fissando la linea netta dell'orizzonte su
cui, nitidissime, si stagliavano le isole Eolie, simili a
mitiche entità risorte come per incanto dal sonno del passato.
I
suoi marinai arrivarono alla spicciolata, gli occhi ancora gonfi per il sonno ma
con il sorriso di luce che soltanto la gioventù sa regalare. Un saluto:
<<buona giornata don Gaetano>>, poche parole, come di consueto, e si
misero al lavoro.
La
barca fu presto varata e, armati i remi, si diresse verso il largo.
In
quel periodo dell'anno, prima della lunga sosta invernale, si praticava la pesca
di superficie consistente nell'avvistare, navigando durante il giorno, tavole,
tronchi d'albero o qualsiasi oggetto galleggiante sotto la cui ombra, a pochi
metri di profondità, alcune specie di giovani pesci si raggruppavano spesso
numerosi per ripararsi dai raggi del sole, riposandosi durante il loro lungo e
misterioso viaggio dalla costa verso il mare aperto. Si procedeva quindi a
calarvi intorno la rete che, poi, era tirata su dalle due estremità della
barca. Il tutto doveva avvenire in tempi rapidissimi ed evitando rumori, cosa
che avrebbe causato l'inabissarsi immediato dei pesci, provocando il fallimento
della laboriosa operazione.
La
prora scivolava veloce aprendo l'acqua con risoluta dolcezza, spinta da sei
lunghi remi che scavavano sulla superficie quieta con un movimento perfettamente
sincrono, accompagnato dalla nenia di uno sciabordio sommesso. Gaetano stava in
piedi nel mezzo dell'imbarcazione, scrutando con attenzione l'immenso spazio
verdognolo, facendosi spesso ombra sugli occhi con una mano per alleviare i
taglienti riverberi del sole.
Era
sufficiente un suo semplice cenno e subito la rotta veniva cambiata. A bordo si
parlava poco, soltanto l'indispensabile, un pò perché i pescatori sono
taciturni per natura, un pò perché bisognava risparmiare fiato per remare,
visto che l'assenza di vento rendeva perfettamente inutile issare la vela.
Dopo
parecchie ore d’incerto vagare, Gaetano non aveva ancora avvistato niente,
sembrava che dal manto del mare fosse scomparsa ogni traccia di vita.
Improvvisamente, però, il suo sguardo fu attratto da alcuni gabbiani che
volteggiavano pigramente, posandosi ogni tanto su un qualcosa d’indefinito
affiorante appena tra le onde, ora mosse a stento da un timido
refolo di vento.
Non
riuscì a capire on precisione di cosa si trattasse, poteva essere la parte
rimasta a galla di un battello affondato, oppure un delfino in agonia o persino
il cadavere di un naufrago sfortunato, dato che in quegli anni di dolore il mare
- come mosso da pietà -
certe volte ne restituiva i miseri resti.
Era
inutile porsi domande, bisognava vedere da vicino, un gesto e poche parole:
<< là, sempre dritto, svelti ! >>.
Man
mano che si avvicinavano la "cosa", lentamente, cominciava a prendere
forma. Sembrava un oggetto tondeggiante, piuttosto scuro, agitato da morbide
oscillazioni, con la superficie resa irregolare da strane sporgenze. Come un
monello dispettoso, in un gioco spensierato, si mostrava
e subito spariva, nascondendosi in qualche fenditura tra i flutti
impacciati.
Furono
sul posto dopo circa un quarto d'ora di voga veloce e non appena giunsero alla
distanza di una ventina di metri il capobarca urlò seccamente: << ferma,
è una mina! >>.
Un
coro di violente imprecazioni si levò dall'equipaggio affaticato per lo sforzo
appena sostenuto, i gabbiani volarono via, leggeri come sbuffi di candido fumo
sparendo nello spazio terso.
<<
Avviciniamoci piano >>, sibilò con decisione Gaetano, attratto da un
impercettibile movimento, quasi un soffuso brusio, intorno alla mina.
Arrivati
ad otto - nove metri videro perfettamente l'ordigno, una grossa
sfera nera, coronata di spolette a percussione, simile ad un mostruoso riccio di
mare. Tenaci cirripedi, abbarbicati al metallo per la lunga permanenza in acqua,
creavano strani motivi sulla superficie liscia, come di tormentati crateri
lunari. S'intravedeva appena l'inizio della grossa catena che l'ancorava al
fondale da cui, sicuramente, la mareggiata dei giorni precedenti l'aveva
strappata. Probabilmente proveniva dal vicino porto di Milazzo dove ne erano
state posate parecchie o, forse, da chissà dove, ma ora era lì e sotto il suo
ampio cono d'ombra notarono la più grossa concentrazione di pesci che avessero
visto in questo genere di pesca. Erano soprattutto piccoli tonni che nuotavano
tranquilli insieme con un consistente numero di variopinte lampughe.
I
pescatori si guardarono in faccia, qualcuno mormorò: << andiamo via
>>, un altro bestemmiò sputando. Gaetano non parlò, l'esperienza gli
aveva insegnato che prima di arrendersi bisogna tentare, gli parve di
riascoltare le parole di suo padre: << nessuno ci regalerà qualcosa, noi
dovremo lottare sempre per vivere, sii prudente ma abbi coraggio, non
dimenticare chi dipende da te >>. Nel nero abisso degli occhi vide
rispecchiarsi gli occhi dei suoi cari e senza esitare disse: << si cala !
>>.
Fu
lanciato in acqua la minuscola boa che indicava l'inizio della rete, quindi la
barca iniziò a descrivere il largo cerchio col quale stringere i pesci in un
abbraccio mortale. Normalmente l’oggetto galleggiante è tenuto al centro
della rete, così da permettere la cattura della maggior parte delle prede, ma
stavolta, poiché la mina non appena toccata sarebbe di certo esplosa, bisognava
calare il più vicino possibile all'ordigno, per non perdere il cono d'ombra con
i suoi ignari ospiti, avendo però cura di lasciarlo all'esterno della
circonferenza tracciata sul velo dell'acqua dai ritagli di sughero della rete.
La tensione era palpabile, opprimente, i muscoli contratti allo spasimo, il
respiro leggermente affannato, sulla pelle abbronzata minuscole gocce di sudore
scivolavano urtandosi confuse. Un silenzio irreale avvolgeva la scena, anche i
loro cuori battevano più piano per non fare rumore.
Gaetano
appariva sereno, solo le rughe sembravano appena più profonde; dirigeva i
compagni ai remi con brevi mosse delle mani e della testa, allargando o
socchiudendo gli occhi, dettando i tempi e infondendo loro sicurezza.
A
poppa, due più esperti calavano la rete che, trascinata giù dai piombi, si
disponeva nell'acqua con un movimento leggero, quasi una danza leggiadra di
medusa, affascinante ma inesorabile.
Il
momento più delicato fu quando passarono a meno di un metro dalla mina, sarebbe
bastata un'onda ribelle o ilmovimento sbagliato di un remo per saltare in aria.
La palla di metallo li osservava con ottusa cattiveria, come una belva in
agguato, le spolette simili ad artigli pronti a lacerare chi aveva osato
disturbare il suo riposo.
Finalmente
completarono l'operazione di calo e, rapidamente, cominciarono a tirare su la
rete, due a prora, tre a poppa. Uno rimase ai remi per tenere in stallo la
barca, mentre Gaetano seguiva il tutto biascicando poche parole ed aiutando ora
l'uno ora l'altro compagno, senza però perdere di vista quello strano essere
che la sorte gli aveva fatto incontrare in quel tiepido giorno d'autunno.
Man
mano che lo spazio dove prima regnavano liberi si riduceva, i prigionieri,
presagendo la fine, si lanciavano in forsennati tentativi di fuga con guizzi
ogni istante più ansiosi, aggrovigliandosi in un'estenuante orgia di schiuma.
La
pesca fu straordinaria, ne catturarono oltre due quintali. Tirate su dal fondo
ribollente della rete, le vittime si dibattevano sulla barca con disperati
riflessi d'acciaio, ogni istante più sfocati.
Don
Gaetano guardò quegli occhi di vetro e, ricordando l’antico sgomento di bimbo
nel vederli morire boccheggiando, l'ombra di un sorriso traversò svelta il suo
volto di pietra.
L'eccitazione
dell'equipaggio era grandissima, finalmente, dopo lunghi giorni d’attesa, una
pescata abbondante. Mentre disponevano con cura il frutto delle loro fatiche
nelle cassette di legno, i più giovani progettavano momenti di festa, altri,
invece, facevano già il conto di quanto avrebbero guadagnato.
Il
nervosismo, che prima li aveva stretti in una morsa d’angoscia, si era
sciolto, lasciando il posto ad una gioia incontenibile.
Consumarono
un pasto frugale, condito di sorrisi e battute. Apparve pure del vino rosso
proveniente dalle colline di Furnari, che bevvero direttamente dalla bottiglia,
passandosela l'un l'altro.
Era
pomeriggio inoltrato quando fecero rotta verso casa.
Avevano
preso dei precisi punti di riferimento sulla costa, per ricordarsi dov'era
situata la mina, la corrente era lentissima e quindi si sarebbe spostata di
poco. Il più giovane del gruppo azzardò: << Ne sono rimasti ancora molti
là sotto, non raccontiamo niente a nessuno, domani torniamo a prenderli
>>.
Qualcuno
trovò l'idea brillante, gli altri, con uno sguardo interrogativo, si rivolsero
al "capo", ora impegnato al timone. L'anziano pescatore pensò
soltanto che ora scendeva la notte, nascondendo ogni cosa col suo mantello di
mistero, e che una qualsiasi imbarcazione avrebbe potuto urtare la mina e così
sarebbero morti dei fratelli, perché sul mare si è tutti fratelli.
Continuando
a seguire la rotta, rispose, semplicemente: << no ! >>.
Nessuno
parlò più fino all'arrivo a terra.
La
guardia costiera di Milazzo, avvertita col telegrafo, giunse sul posto quasi al
crepuscolo e fece brillare la mina. Sulla spiaggia i pescatori e tanti curiosi
osservarono l'esplosione che sbocciò sul mare come un fiore di luce, mentre un
rumore cupo, come il rombo di un tuono, percorse l'aria in un lungo brivido di
gelo.
Una
donna vestita a lutto si fece il segno della croce.
Gaetano,
appoggiato alla sua barca, guardò per l'ultima volta quello strumento di morte
che aveva portato vita alla sua gente e
capì che la guerra era davvero
finita.
E
tutto questo gli sembrò una benedizione del cielo.
Giuseppe
Risica